Formicaio.
Carmela scrive uno status su Facebook in cui dice che adora
taralli e birra a Mergellina.
Non credevo che le ragazze si conquistassero ancora in
questo modo.
Quando l’ho portata lì mi sono sentito abbastanza in colpa. Quando
stavo con Maria quella era la cosa che finivamo a fare quando avevamo bisogno
di parlarci un po’.
Lei mi portava vicino al mare per farmi pensare. Diceva che
quando guardavo il mare i miei occhi si facevano scuri, i miei pensieri torvi e
a lei veniva una gran voglia di tirarmi fuori le parole succhiandomi le labbra.
Avevo portato Carmela lì perché avevo voglia di essere il
più lontano possibile dalla mia Bionda e il più vicino possibile ai miei
pensieri torvi. Non avrei mai sperato di avere tanto successo.
Le amiche di Carmela scrivono sotto al suo post che vogliono
sapere tutto. Lei risponde che è uscita con un tipo misterioso che ha un sacco
di storie da raccontare (e poi ci infila un sacco di cuoricini prima e dopo).
Mi viene da ridere, perché non ricordo di averle raccontato un cazzo. Credo
solo di essermi sparato un sacco di pose, e poi a me riesce bene di fare il
poeta maledetto, soprattutto con una ragazzina che non vede l’ora di farsi
male.
Il suo post è lì, messo a galleggiare come una trappola. So che lei vorrebbe che io commentassi, e so perfettamente che non lo farò. Non mi piacciono queste cose.
Il suo post è lì, messo a galleggiare come una trappola. So che lei vorrebbe che io commentassi, e so perfettamente che non lo farò. Non mi piacciono queste cose.
Sto passando un pessimo pomeriggio tiepido davanti al
computer. I tasti che Adriano mi ha messo a posto non sono più quelli di una
volta. Quando ci batto le dita sopra li sento con un suono diverso, una specie
di rimprovero. La bomboletta dell’aria compressa mi guarda male da un angolo
della scrivania.
Decido che Ho passato troppo tempo davanti a Facebook e mi
metto a guardare dei video di Rihanna che si dimena mezza nuda e per qualche
istante penso che le vorrei mangiare il culo.
Il mio libro è a un punto morto. Sto scrivendo di un
investigatore che cerca di risolvere il mistero di alcuni bambini fatti a pezzi
e ritrovati in alcuni punti della città. Il fatto che io abbia ambientato
questa storia a Napoli la rende molto poco credibile. Niente, l’investigatore è
finito a un punto morto e forse questo è dovuto al fatto che ancora non ho
capito perché hanno rapito i bambini, perché li hanno uccisi e soprattutto perché
li hanno sparsi in giro per la città.
Cioè, ci si aspetta che uno che voglia fare lo scrittore
sappia cosa voglia scrivere. E invece io no, perché mi sono fissato sull’immagine
di un bambino fatto a pezzi e volevo parlare di quello, poi la storia ci
sarebbe nata attorno piano piano. E mi sbagliavo, perché forse questa è una
storia che da me non vuole essere scritta.
Dopo aver descritto minuziosamente lo studio dell’ispettore
Massa, che è sostanzialmente simile a qualsiasi altro studio di ispettore della
letteratura di questo genere, e inspiegabilmente simile alla mia casa attuale,
chiudo il computer e metto mano alla bomboletta di aria compressa.
Sulle istruzioni d’uso c’è scritto che non si deve usare
troppo da vicino. Forse avrei dovuto leggere quelle cose prima di sperimentarlo sulla
mia preziosa tastiera. Mi chiedo cosa succeda se me lo punto in un occhio e
sparo.
Fuori il tempo è bello, fa caldo, e qualcuno giù nel vicolo
fuma erba facendomi venire voglia pure a me.
Delle formiche hanno fatto tana all’angolo del balcone che
dà sul terrazzo. Si infilano nei muri, secondo me devono avere un universo immenso nelle intercapedini di tufo di questa casa vecchia. Adesso si stanno fottendo buona
parte della scatoletta che ho dato quello stronzo di gatto ieri sera, che ha
pensato bene di non mangiare. A quanto pare non gli piacciono le scatolette al
pollo.
Mentre guardo le formiche penso che forse un giorno sarò
costretto anche io a mangiare scatolette al pollo. Non mi posso permettere
manco più le sigarette.
Fumo. Devo fumare.
Mi accendo una Pall Mall blu. Prendo il barattolo con l’aria
compressa e comincio ad ammazzare con un getto preciso e ben direzionato una
formica alla volta.
Prima penso che sono soldi ben spesi, poi mi sento in colpa.
Ti immagini a essere una formica? Stai tipo cercando di portare a casa ai tuoi
figli un pezzo di fottuto pollo che un gatto di merda non ha voluto, non è che
stai rubando, eh. E poi arriva un coglione annoiato che decide di farti fuori.
E i tuoi figli cosa penseranno? Si sentiranno in colpa. Se fossero stati
abbastanza grandi magari sarebbero morti loro, mentre cercavano di procacciarsi
il cibo. Adesso il più grande sarà costretto a trovarsi un lavoro da formica
operaio, sottopagato, per permettere a suo fratello di continuare gli studi.
“Certo che ne pensi di stronzate, ragazzino!”
La voce di Atropo mi sorprende che sono ancora in pigiama e
canottiera, chinato per terra a quattro zampe, con un mozzicone di sigaretta in
bocca e in mano l’arma del delitto. Mi sento patetico.
La guardo dalla mia ingloriosa posizione.
“Da dove sei entrata?”
“Sono come i vampiri: dopo che mi hai invitato a entrare
posso fare quello che voglio.”
“Davvero funzionano così i vampiri?”
“Non lo so.”
Mi alzo da terra e mi pulisco le ginocchia. Quel pigiama è
rotto e macchiato, forse dovrei metterlo a lavare.
Spengo la sigaretta in un bicchiere di carta pieno d’acqua.
“Giochi a fare il Dio, Al?” Mi chiede la rossa, e pronuncia
il mio nome come se volesse ansimarlo.
“Pensavo che ti facessi viva solo di notte. Com’è che sono
le cinque e mezza e già rompi il cazzo?”
“Non devi mai dare per scontato le cose. Io vado e vengo
come mi pare”.
Si siede sul tavolino minuscolo della cucina, che neppure
scricchiola. È un coso pieghevole che ho preso da Ikea. Adriano l’ha dovuto
montare lui perché io non ne ero capace, e comunque non mi ha mai dato l’impressione
di essere molto solido, perché quando mi ci appoggio coi gomiti per mangiare lo
sento pericolante. Invece sotto al peso di quella donna tutta forme non sembra
vacillare nemmeno per un attimo.
“Al…”
“Che vuoi?”
“Perché tuo padre non è tuo padre?”
“Perché ha deciso che io non sono un buon figlio”.
Le rispondo indispettito e me ne vado dalla stanza sperando
di non trovarmela avanti al cazzo ancora. Lo so che tanto è solo nella mia testa.
Vado al cesso e mi tolgo la canottiera. Mi tolgo pure il pantalone e le mutande e le infilo nel cesto di roba sporca che forse un giorno laverò, o riprenderò così com’è quando non avrò altro da mettermi.
Vado al cesso e mi tolgo la canottiera. Mi tolgo pure il pantalone e le mutande e le infilo nel cesto di roba sporca che forse un giorno laverò, o riprenderò così com’è quando non avrò altro da mettermi.
Apro la tenda della doccia e mi ritrovo Atropo, sempre
vestita di nero, sempre strizzata nel tubino, sempre con il cappellino da
lutto.
“Che diavolo ci fai qui dentro?”
“Ti perseguito, no?”
Mi copro il pisello e mi sento ancora più ridicolo.
“Oh, andiamo, timidone…”
Mi si sporge addosso. Mi mette due mani fredde sulle spalle
e poggia la fronte sulla mia.
Il suo cappellino è ruvido sulla mia pelle. Attraverso la
veletta guardo gli occhi verdi di… chi cazzo è Atropo? È davvero la morte?
“Dovresti mettere un po’ di ordine nella tua testolina,
ragazzino…”
Con la coda dell’occhio guardo l’asciugacapelli lasciato a
terra vicino al bidet. Poi guardo la vasca da bagno. C’è una presa non troppo
distante, dove dovrei tenere attaccato lo spazzolino da denti elettrico.
“Non lo farai”. Mi dice Atropo.
Poi mi sembra di vedere annebbiato per qualche attimo. Sento
freddo.
Mi accascio contro il muro e faccio cadere un barattolo di
borotalco che non aveva più niente dentro.
Il rumore mi da sui nervi tanto da farmi riprendere.
Atropo non c’è più.
Mi butto sotto la doccia e basta.
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