martedì 15 settembre 2015

Chameleon's Dish - Capitolo XII

EMDR 2

“La prima volta che ho pensato di dover morire è stata da piccolo.”
Dico alla dottoressa. Altalena con le dita davanti ai miei occhi in quella specie di solita strana ipnosi. Non mi ricordo come ci sono arrivato a questo fatto dall’immagine di mio padre morto nel mio letto.
“Non sono sicuro di questa cosa, ma da bambino non volevo diventare grande. Mi terrorizzava l’idea di dover abbandonare… non so nemmeno io che cosa. Non lo so se avevo coscienza del problema delle varie responsabilità che pesano sulle spalle degli adulti. Non so se era una specie di mito l' essere bambini. Forse qualcuno deve avermelo infilato in testa, questo fatto, un po’ come la Signora Darling che credeva fermamente in Peter Pan. Mia mamma è un po’ come la signora Darling.”
La dottoressa mi ascolta continuando a muovere le dita. Mi chiedo se le interessi davvero quello che dico.
“Poi, giusto perché parliamo di Peter Pan, c’era un film: Hook, con Robin Williams. Ha presente?”
“Quello con Dustin Hoffman.” dice la dottoressa.
“Ecco, a un certo punto, inaspettatamente, il motivo del mio aver paura di crescere me lo sento spiattellato con poche parole semplici: io non volevo crescere perché tutti quelli che crescono devono morire”.
“È lì che hai realizzato la paura della morte?”
“No. È lì che ho imparato a spiegare perché non volevo crescere. Però da bambino comunque facevo delle prove generali.”
“Cioè?”
“Mi mettevo nel letto al buio e mi chiedevo cosa significa non pensare, non respirare, smettere di esistere. Magari sembra stupido, ma io cercavo quella sensazione di totale nulla dentro di me e ne ero terrorizzato. Però ne avevo bisogno e appena spegnevo la luce e mi mettevo nel letto la mia testa aveva bisogno di andarsi a infilare nella tana del Bianconiglio, che puzzava di morte. Così finiva che trasformavo la mia paura della morte in paura del buio”.
“Quanti anni avevi?”
“Avevo appena cominciato le elementari, mi pare. Forse sei o sette anni.”
“Eri molto piccolo”.
“Beh, alla fine non mi riuscivo ad addormentare, ma andavo dai miei genitori dicendo che avevo avuto un brutto sogno. Loro mi accoglievano per un po’ nel letto, poi mio padre mi prendeva in braccio e mi portava in camera mia. Io facevo finta di dormire, sapevo perfettamente che mi stavano lasciando solo di nuovo, ma non dicevo niente. Assaporavo quelle che per me erano una strana forma di coccole: mio padre non mi prendeva mai in braccio se non per rimettermi a letto.”
“Questa cosa come ti fa sentire?”
“Non lo so. Nervoso.” E mi accorgo di dondolare di nuovo con le gambe e ho mal di schiena. Mi sento leggermente incurvato, richiuso su me stesso.
“Vai avanti.”
“Niente, qualche volta ho provato a fermarlo prima che tornasse in camera. Gli dicevo che avevo paura del buio e lui mi rispondeva che tutti hanno paura del buio e se ne andava.”
Per un attimo devo frenare una strana sensazione di rabbia che mi sale in gola come se fosse un conato di vomito. Distolgo lo sguardo.
“Come ti senti?”
“Arrabbiato”.
Stringo i pugni.
“Perché?”
“Perché non doveva andarsene. Non doveva lasciarmi solo”.
Quella stronza della dottoressa mi ha portato dove non voglio andare. Dove mi viene da piangere. Stringo i pugni ancora un po’.
“Lasciati andare, se vuoi… qui puoi piangere.”
Faccio no con la testa e mi do il tempo di far scendere quella fitta di dolore. Poi torno a guardare la dottoressa. Lei riprende a muovere la mano.
“Da piccolo più che spingermi in avanti, con la mente, pensando all’idea della morte, pensavo alla non esistenza prima della nascita. Cioè, cercavo di ricordare che cosa ero stato prima di venire al mondo. Ok, lo so, sembra sempre una cosa da pazzi, però io ce la mettevo tutta. Volevo sapere, volevo capire, volevo essere speciale ed essere uno di quei fenomeni da baraccone che finiscono in televisione perché hanno visto Dio o perché hanno ricordato la loro vita passata.”
Non sono del tutto sicuro che lei abbia capito cosa intendo. Forse nemmeno mi crede che a sei anni facevo dei ragionamenti così. Eppure è vero, e forse è per questo che non ho mai legato con i miei coetanei. E nemmeno con quelli più grandi. In realtà non ho mai legato con nessuno e basta.
“Adesso penso solo che forse, sia da piccolo sia adesso, la cosa alla quale proprio non posso arrendermi è che la vita non sia altro che questo. Che non c’è niente di speciale in me, che io semplicemente esisto e un giorno smetterò di esistere e non avrò fatto niente di importante. Il mondo continuerà a morire anche senza di me. Sono completamente ininfluente, impotente.”
“E questo come ti fa sentire?”
“Infinitamente incazzato”.

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