lunedì 27 luglio 2015

Chameleon's Dish - Capitolo IX


Limone ad azione sgrassante.

Torno a casa.
Sbatto la porta dell’ingresso e inciampo in una sedia.
Non accendo la luce.
Vado direttamente a prendere il telefono. Lascio cadere il casco per terra. Faccio il numero di Maria, mentre sento le braccia che mi formicolano.
Le mie mani sono sporche di sangue, cazzo.
Sono in piedi con la fronte affogata nel braccio, nascondendomi gli occhi. Faccia al muro. In castigo. Mi fa male la testa. Il telefono bussa ma non risponde nessuno.
“Rispondi, cazzo rispondi…”
“Pronto?” Maria dormiva. Me lo ha detto la sua voce.
Non ho il coraggio di parlare. Respiro solo.
“Pronto?”
Dovrei dire qualcosa.
“Al, sei tu?”
“Sì.”
“Stai bene?”
“Ti ho svegliata?”
“Sì.”
“Mi dispiace.”
“Che ti prende? Tutto bene?”
“No.”
Sento dei rumori dall’altra parte. Credo si stia alzando dal letto.
“Vengo da te.”
“No. Non voglio.”
“Amore, che succede?”
 “Io… volevo solo sentire la tua voce.”
“Hai avuto ancora qualche incubo?”
“Sì.”
Non era un incubo.
Maria comincia a dirmi che devo stare tranquillo. Che se voglio possiamo vederci, e fanculo il lavoro domani mattina. Fanculo tutto. Le dico che va tutto bene. Sono solo uno stupido. Va tutto bene. Mi dice che mi ama. Mi dice che mi ama tanto. Poi riaggancio.
Mi sono macchiato la maglietta con il sangue. Forse ho sporcato anche il muro. Vado in bagno e comincio a lavare via tutto, e non si toglie. O forse sì. A me sembra di no. Prendo la spugna della doccia e il sapone per i piatti.
Poche ore prima Carmela mi guardava, inginocchiata per terra, con la faccia sporca della mia sborra. Mi ha trascinato a forza a conoscere le sue amiche. La scusa è stata una stupida festa nel bosco dei Camaldoli dove un gruppo di senegalesi ha deciso di esibirsi facendo musica politicamente impegnata. Roba da mal di testa.
Carmela mi ha visto poco incline alla conversazione, sia con lei che con le sue amiche. Mi si è avvinghiata al collo e mi ha infilato la lingua nell’orecchio. Mi ha afferrato il cazzo con la mano e ha detto “seguimi”. Ci siamo infrattati e me la sono ritrovata inginocchiata per terra mentre mi tirava giù la zip.
Quel posto è pieno di fazzoletti sporchi, chissà quanta gente c’è stata prima di noi.
Poi Carmela si è pulita la faccia, ha buttato i fazzoletti a far compagnia agli altri, e mi a baciato di nuovo, sulla bocca. Mi ha preso per mano e mi ha riportato dalle sue amiche, come fossi una bestia pronta per il sacrificio.
Le sue amiche sono tutte interessate a quello che faccio. Mi hanno fatto un sacco di domande alle quali ho risposto a monosillabi perché non mi andava di gridare: c’era troppo casino. Si sono messi tutti a ballare ma a me non andava. Carmela mi ha detto che sono noioso e ha cominciato a strusciarsi con una sua amica, perché secondo lei così mi sarei mangiato le mani. Io pensavo più alla mia birra calda che a lei.
Quando ce ne siamo andati c’era da camminare un po’ fino al motorino. Carmela era felice come una pasqua e mi teneva per mano, canticchiando roba in senegalese sbagliato, stonando. Era mezza ubriaca.
Il vialetto di merda che portava fuori al bosco dei Camaldoli dalla zona in cui c’era il concerto era fottutamente buio, buio pesto. La gente aveva smesso di arrivare perché era tardi, ma non tardi abbastanza per andare via, quindi era una strada senza anime da incontrare. Rumori inquietanti dappertutto. Non mi è mai piaciuto il buio.
Ci siamo ritrovati un coglione davanti. Sembrava fatto, o troppo poco fatto. Carmela non ha gridato, ha solo smesso di cantare e mi ha stretto le unghie nella mano.
Il tipo mi dice che vuole il telefono. Che vuole tutto. Pure i soldi.
Carmela è già pronta a darglieli, ma io sto troppo rotto il cazzo.
“Senti, non teniamo niente.” Gli dico sfasteriato. Carmela si cerca i soldi nella borsetta e io le strattono il braccio.
Lui tiene una specie di cacciavite in mano. Sembra talmente fuori di testa che mi si rivolta contro. Mi mette una mano in faccia, un dito nell’occhio. Dice qualcosa che non capisco. Sicuramente quel cacciavite non sapeva usarlo. Io ricordo perfettamente la sensazione fisica che ho provato quando, senza pensare, con tutta la forza che tenevo in corpo, me lo sono tolto di dosso con uno spintone.
È caduto per terra. Quel figlio di puttana era solo un disperato.
Non mi viene di pensare, però, che è solo un poveraccio. È lì, per terra. Mi ha rovinato la serata. Figlio di puttana. Comincio a prenderlo a calci nello stomaco, senza dirgli niente. Carmela grida. Non me ne fotte. Quello si lamenta. A me fa incazzare che quello si lamenta e mi ci butto sopra. Comincio a prendergli a pugni quella faccia da stronzo che tiene e che nemmeno riesco a vedere nel buio. Mi fanno male le mani. Continuo a prenderlo a pugni. Carmela grida più forte, fino a quando non sento che mi si aggrappa al braccio.
“Smettila! Basta cazzo smettila!” Sta piangendo.
Mi fanno male le mani e ho paura di aprirle. Sono bagnate, ma non vedo il sangue. A terra il tipo è fermo. Respira.
Carmela mi si fionda tra le braccia, mi continua a dire basta. Mi spinge via. Mi fa alzare da terra. Le metto una mano sulla spalla e solo allora mi accorgo che ho le nocche sporche di sangue.
“Andiamo via”, le dico. Sento che mi trema la voce.
Guido il motorino fin sotto casa di Camela. Lei sta ancora piangendo. Mi dice qualcosa, ma non voglio ascoltare. Riparto senza dire niente e senza farle finire la frase.
Lascio che i miei pensieri si affoghino insieme allo Svelto Piatti nel gorgoglio dello scarico del lavandino. Il bagno puzza di limone ad azione sgrassante.
Mi guardo allo specchio. Ho gli occhi da pazzo allucinato.
Non era un incubo. L’ho fatto davvero. L’ho fatto davvero. 

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